Morfologie e scenari del presente
Andrea Lerda
Da dove nasce il tuo interesse per il paesaggio?
Marion Belanger
Sono cresciuta nella valle manifatturiera del Connecticut, nella quale scorreva uno dei fiumi più inquinati del Paese. Vi si potevano vedere striature dal colore rosso, blu e verde, lasciate da prodotti chimici che, provenienti delle vicine fabbriche, venivano riversati nell'acqua. Anche l'aria era altrettanto tossica, tanto da farmi pungere e lacrimare gli occhi. Ma al di là dell'area produttiva, la maggior parte del paesaggio era incontaminato e bellissimo. Erano dunque evidenti i fattori economici che definivano l'uso del territorio, il suo aspetto e la sua contaminazione. Il passaggio dalle aree inquinate a quelle pastorali era piuttosto improvviso; a quella giovane età ho dunque compreso che, ideologicamente, il paesaggio un concetto complesso e influenzato da molti aspetti economici. La mia passione per il paesaggio nasce quindi da tutte queste esperienze vissute in età giovanile.
Ho fotografato lo stesso fiume lo scorso anno. La perdita delle manifatture e la generazione di una regolazione in ambito ambientale, hanno trasformato questa zona, originariamente inquinata, in un luogo molto più pulito e verde. Il paradosso e la conseguenza è che mentre la perdita delle aree produttive ha permesso al fiume di tornare a essere nuovamente pulito e salubre, molte persone hanno perso il lavoro e le città non hanno più attratto l'insediamento di nuove industrie.
Marion Belanger, dalla serie Fault, 2008-2012, courtesy l'artista
A.L.
Fotografare significa ritrarre, portare qualche cosa alla luce, fissare un evento, una specifica situazione o un determinato contesto, incoraggiare lo sguardo e l'attenzione per un luogo. Che cos'altro secondo te?
M.B.
La fotografia appartiene tanto allo spazio immaginativo della mente quanto al mondo esterno. La combinazione di questi due aspetti può creare una narrativa unica, all'interno della quale concetti, forme, contenuti definiscono significati e suscitano emozioni. Mentre la mia pratica è fondata su una ricerca, le mie fotografie sono come le parole di una poesia, che invitano lo spettatore ad impegnarsi attivamente, intellettualmente e in maniera personale oltre che visiva. L'arte, per sua stessa natura, ci provoca, dandoci bellezza me non risposte alle domande.
Marion Belanger, dalle serie Rift, 2006-2009, courtesy l'artista
A.L.
Perché parlare di paesaggio oggi?
M.B.
Conosciamo tutti le terribili condizioni nelle quali versa il nostro pianeta al giorno d'oggi; credo dunque che un dibattito interdisciplinare sia cruciale. I nostri paesaggi rivelano molto della nostra cultura. L'ambiente che abbiamo costruito e che quotidianamente costruiamo è come il riflesso in una piscina di tutti gli atteggiamenti culturali: desideri, sogni, paure che si manifestano all'interno del paesaggio. Di default, questo tema diventa spesso una questione politica, pur non essendola. Non c'è niente da fare, gli esseri umani hanno la tendenza a modificare molto rapidamente il pianeta, ad alterare l'atmosfera, a cambiare gli equilibri degli oceani e della biosfera, ad alterare la terra in maniera significativa. Con questo tipo di situazione è impossibile fotografare il paesaggio senza porsi delle domande, che vedano coinvolte questioni e problematiche ambientali.
A.L.
Quale aspetto del paesaggio ti interessa maggiormente? Il dato naturale dell'ambiente? Le sue caratteristiche morfologiche e le sue caratteristiche geologiche? La relazione tra uomo e natura?
M.B.
Lo studio del paeaggio è un modo per comprendere meglio il nostro ruolo nella complessità del mondo. Il mio lavoro fotografico analizza le modalità attraverso le quali gli aspetti geologici e culturali interagiscono. Sono interessata a come le persone vivono all'interno dell'ambiente. In maniera simile a come fa un antropologo, io osservo le tracce lasciate dall'uso del territorio.
Non ci sono molti momenti o eventi significativi nelle mie fotografie. Mentre la ricerca solitamente informa, le mie immagini lasciano immaginare; molto dipende dalla luce e da ciò che vedo davanti alla lente dell'obiettivo.
A.L.
Da dove nasce il tuo interesse per le placche tettoniche?
M.B.
Fotografando un paesaggio decisamente in crisi come quello delle Everglades, in Florida, mi fu chiaro come le decisioni prese nel passato possano generare danni ambientali tali da portare al collasso ecologico. In quel periodo poi l'uragano Katrina aveva anche portato devastazione a New Orleans. Tutto ciò ebbe un forte impatto su di me, soprattutto perché ho vissuto in quella città per anni, prima del passaggio dell'uragano. Mi stavo facendo delle domande relative all'ingegneria della natura e mi interrogavo sulla reale esistenza della 'wilderness', oggi così dipendente dalla gestione delle risorse.
Mentre facevo delle ricerche sui fenomeni geologici, ho letto il testo 'Krakatoa and A Crack in the Edge of the World' di Simon Winchester. Winchester scrive cose molto belle a proposito della geologia e alcune teorie in merito alle placche tettoniche. Il mio interesse per i limiti della terra non era cosa nuova, così l'approfondimento di questo tema specifico si è rivelato un luogo ideale per esplorare e investigare le mie preoccupazioni. I confini sono spesso contestati e politicizzati, eppure sono figure instabili, in evoluzione, pronte al cambiamento. Il loro comportamento è per la maggior parte imprevedibile e incontrollabile. Esistono due tipi di confini relativi ai bordi delle placche tettoniche: uno laddove due calotte si incontrano, l'altro costituito dal terreno stesso che le costituisce; da un lato le forze primordiali e invisibili della natura, dall'altro la vita che ha definito il paesaggio soprastante. Concettualmente mi ha affascinato molto la tensione tra l'invisibile e l'immaginato, oltre ai bordi della placca tettonica Nord Americana.
In California, la Faglia di Sant'Andrea offre pochi esempi visibili di bordi piatti ma l'ambiente costruito sembra ignorare le caratteristiche e la realtà di un territorio così particolare.
In Islanda, l'instabile, la terra viva, le acque bollenti e la lava incandescente, hanno reso impossibile il non riconoscere ciò che si trovava al di sotto del suolo. La pericolosità che esso possiede, rappresenta un costante monito all'attenzione e alla cautela nell'atto di camminare sulla terra, in senso più ampio.
La dicotomia crea così una tensione che ci porta a interrogarci sul difficile rapporto tra forze geologiche e limiti dell'intervento umano.
In ordine: Marion Belanger, Fault serie, courtesy l'artista
A.L.
Qual'è il potere della fotografia di paesaggio all'interno del contesto odierno?
M.B.
Non c'è mai stato tanto interesse nella fotografia di paesaggio come in questo momento. In parte questo può essere dato dal fatto che il futuro del pianeta è decisamente precario, così come lo è il nostro, in quanto specie umana. La proliferazione di forum online, blog, riviste e siti internet (come Platform Green) hanno permesso una condivisione più democratica e semplice delle informazioni. Fotografia e tecnologia sono sempre state intrecciate fin dalla nascita del mezzo. Planet Labs, una giovane azienda californiana, ha inventato satelliti piccoli, agili e poco costosi: il loro nome è Dove (colomba), (https://www.planet.com) e fungono da scanner per il pianeta, raccogliendo dati ogni 24 ore sulle sue condizioni.
Le opportunità di utilizzare questa sorta di fotografia di paesaggio è qualcosa di assolutamente rivoluzionario ed entusiasmante.
A.L.
Infine, quali sono i tuoi progetti futuri?
M.B.
Sto lavorando alla serie Extinct and Newly Found (il titolo è ancora in corso di definizione): un progetto fotografico sulle specie di piante estinte dell'Everglades National Park e allo stesso tempo su alcune nuove specie di licheni ancora non identificate. Negli ultimi 40 anni, la metà di tutte le forme di vita che abitavano la terra si sono estinti e molte migliaia sono a rischio. Scoprirne di nuove è qualcosa di molto bello. Inoltre, sto portando avanti il lavoro Open Space, che documenta la rapidità con la quale stanno scomparendo le fattorie e le aree verdi nelle aree in cui vivo.
Infine sono in fase di ricerca per un progetto di scala più grande (ma credo sia troppo presto parlare di questo) e sempre aperta a collaborazioni e altre opportunità.
Marion Belanger, Landfill, courtesy l'artista