Dalle Alpi ai Calanchi
Parlare di abbandono implica chiamare in causa il trascorrere del tempo, il susseguirsi dei cambiamenti della storia; significa ragionare sulla fragilità del nostro tempo, dei luoghi, del paesaggio, del ruolo della cultura e della società contemporanea.
Il progetto Dalle Alpi ai Calanchi, di Gianfranco Gallucci, mira a documentare tre tipologie di abbandono, in relazione a tre differenti contesti. Il primo è il borgo di Paraloup (tra le montagne cuneesi), luogo cruciale della lotta partigiana, lasciato 'morire' in seguito al processo di spopolamento delle valli che è seguito all'inevitabile periodo di industrializzazione e recentemente riqualificato grazie all'intervento della Fondazione Nuto Revelli. Poi la cittadina di Onna (l'Aquila), devastata dal terremoto del 2009 e infine Craco, in provincia di Matera, che in seguito ad una frana, a partire dal 1963, ha assistito ad un inesorabile esodo.
In conversazione con Gianfranco Gallucci:
Andrea Lerda
Da dove nasce la scelta di un tema così particolare?
Gianfranco Gallucci
La scelta di questo tema in realtà è nata un po' per caso e non è tra quelli specifici che sono solito sviluppare, nonostante la mia ricerca ruoti molto attorno al tema dei luoghi, di cui mi servo per raccontare storie legate agli stessi e nonostante sia sempre stato affascinato dai contesti devastati, abbandonati o simili, come quelli ritratti negli scenari del film Stalker di Tarkovskij. Ricordo che da bambino, con gli amici si andava a fare scorrerie nei campi, a visitare vecchie case abbandonate, vecchie fabbriche dismesse e pericolanti, quindi, forse, anche per questo ho conservato il fascino verso questi luoghi. Ma in realtà il progetto Dalle Alpi ai Calanchi è nato da un lavoro che ho portato avanti per due anni sulla città di Craco Vecchia in Basilicata. Sono per metà di origini lucane e stavo lavorando sul concetto di terra, di luogo di appartenenza, così ho iniziato un lungo lavoro su questa regione, che va avanti ancora oggi e al quale appartiene proprio il progetto su Craco. Da questo poi è nata l'idea di estendere il lavoro al resto dell'Italia, scegliendo simbolicamente un paese al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Paraloup (in provincia di Cuneo), Onna (in provincia dell'Aquila) e Craco in Basilicata. Ciascuno di loro è inserito in contesti territoriali e paesaggistici differenti e ha le proprie storie e tradizioni culturali. Oltre a queste differenze, mi interessava che emergesse anche la molteplice coniugazione del tema dell'abbandono dei luoghi. Avrei quindi potuto estendere il lavoro alle svariate centinaia di realtà simili, sparse su tutta la penisola, ma ritengo che per questo sia necessario il lavoro di una vita, quindi preferisco lasciarlo alla straordinaria figura degli 'abbandonologi' come Antonella Tarpino o Carmen Pellegrino, con le quali ho avuto modo di collaborare per realizzare questo progetto.
A.L.
Cosa ti affascina nello specifico di questi soggetti e cosa vuoi eventualmente sottolineare?
G.G.
Mi è sempre piaciuta la loro natura 'extra-terrestre' e umana allo stesso tempo, come quando ti trovi immerso tra i calanchi che circondano Craco, nei quali hai la sensazione di trovarti in un luogo fuori dal tempo, o almeno fuori dalla contemporaneità. Forse, il fascino di questi luoghi risiede nella loro personale identità temporale, che non sembra far parte del normale corso del tempo, e non parlo della presunta immortalità, legata al concetto di memoria storica, delle rovine. Questi luoghi paiono essere collocati in uno spazio temporale altro. Come se vivessero in un loro tempo, assente, che si manifesta soltanto attraverso il loro aspetto mutevole (dovuto alla trasformazione della materia) e ugualmente immutabile. L'identità spaziale degli stessi, si manifesta quindi nel loro essere contenitori del tempo, il tempo storico, responsabile del loro cambiamento e associato al concetto di memoria di cui sono portatori, e di un tempo altro, sospeso, quasi assente, che li definisce e li rende così diversi dagli altri luoghi. Forse mi interessa sottolineare che questi luoghi hanno un'anima, una storia, una vita, ancora oggi. Là dove sembra non esserci più, se guardi bene, riesci ancora a vederla.
A.L.
Sei interessato a mettere in evidenza evidenziare aspetti formali particolari dei paesaggi che fotografi?
G.G.
L'aspetto formale nel mio lavoro non è mai una finalità diretta e lo stesso vale quando lavoro sul paesaggio. Diventa piuttosto una risultante, intrinseca al paesaggio e alla fotografia stessa, che se ne serve come mezzo di lettura per tradurre in immagine la visione, restituita agli occhi, di ciò che uno vede. Ogni paesaggio ha la sua forma, la sua estetica, la sua identità. Sta al fotografo tradurre ed interpretare quella forma, unica per ogni paesaggio, come per ogni persona, per comunicare qualcosa di quel paesaggio, al fine di affiancargli un messaggio, di attribuirgli un significato personale, che porta l'oggetto fotografato ad acquistare una particolare valenza semiotica, sia essa scientifica, naturalistica, emotiva o quant'altro, non ha importanza. Mi interessa andare oltre l'aspetto formale, al massimo servirmene inconsciamente per tradurre ciò che io personalmente vedo o leggo in quel determinato paesaggio. Non credo assolutamente che la natura formale di un paesaggio sia l'unica lettura possibile, significherebbe fermarsi alla superficie delle cose, alla prima impressione. Cerco sempre di cogliere l'invisibile attraverso il visibile. Non è forse questo la fotografia, se non servirsi della superficie per andare oltre e mostrare, o provare a farlo, l'essenza stessa delle cose, di ciò che ti circonda, al di là delle finalità, sempre attraverso il proprio personalissimo punto di vista? Mi piace pensare ad un paesaggio come una persona, che ti racconta la propria storia, o come un libro da leggere.
A.L.
Qual'è, se c'è, il ruolo dell'estetica in questi luoghi?
G.G.
Ogni luogo credo abbia la sua estetica, come ogni autore la propria. Il bello è che quando un luogo diventa oggetto di osservazione, lettura, interpretazione, moltiplica esponenzialmente le proprie potenzialità estetiche, che finiscono con il coincidere con le differenti letture che ogni autore può fare, attraverso la propria visione di quel luogo. Un po' come con le persone, 'uno, nessuno, centomila', lo stesso luogo, visto da occhi diversi, appare diverso ad ognuno, perché letto attraverso il proprio modo di vedere che è unico e irripetibile. Ma al di là delle differenti letture che di un luogo si possono dare, nel caso specifico, per me la loro estetica ha in qualche modo un ruolo narrativo e scenografico, del quale mi servo per cercare di raccontare altro, di provare a vedere la memoria degli stessi luoghi, come se fossero davvero persone, dotati pertanto di questa facoltà. Certo, non è un processo 'immediato' leggere dentro la memoria di un luogo, dentro il cuore, lo stomaco, e la testa di un luogo, ma può essere un modo per provare a raccontarlo.
A.L.
L'identità di un luogo è strettamente legata all'identità dell'uomo. Quali prospettive vedi in questo senso, dopo aver realizzato la serie Dalle Alpi ai Calanchi?
G.G.
Penso che si dovrebbe tornare a godere di questi luoghi, non necessariamente andandoci a vivere, ma riappropriandosene ove possibile. Recuperarli, valorizzarli, tornare a farli sentire parte del paesaggio e non delle isole strumentalizzate a scopi di lucro, come in alcuni casi. Quando mi capita di vedere luoghi simili, osservando l'intorno e il paese o ciò che ne resta, mi rendo conto che solitamente emerge tanto lampante la presenza umana (proprio in un posto dove essa è dimenticata da tempo, come se in realtà non fosse mai andata via) quanto quella della natura incontaminata. Osservando il contrasto tra l'intorno, dove la natura si è nuovamente impossessata dei propri spazi, e ciò che resta dell'intervento dell'uomo su di essa, 'l'alterazione del paesaggio ad opera dell'uomo', emerge vivo il legame imprescindibile tra i due, anche lì dove sembra essere svanito. Per questo penso che dovremmo tornare a fruire di questi luoghi, in realtà più dimenticati che abbandonati del tutto.