La parola a Lorenzo Giusti, direttore del Man di Nuoro
Elisabetta Villani
Ci piace ripensare alla tua Green Platform * anche come fonte di ispirazione per Platform Green.
Erano anni particolari, in un clima di interesse crescente per le tematiche legate all’ecologia. Da quel momento la tua ricerca continua sviluppando una certa sensibilità critica sul pensiero ecologico.
Lorenzo Giusti
Mi onora pensare che una mia mostra possa avere ispirato un progetto editoriale. Green Platform, quando è nata tra il 2008 e il 2009, risentiva molto del dibattito politico e culturale di quegli anni: si andavano reinterpretando il pensiero di Gregory Bateson (Steps to an Ecology of Mind, 1972, Mind and Nature, 1980) e di Felix Guattari, nella declinazione de Le tre ecologie (1991); Nordhaus and Shellenberger avevano da poco pubblicato i loro saggi (Break Through: From the Death of Environmentalism to the Politics of Possibility, 2007) e anche una certa politica sembrava volere mettere l’ecologia al centro della propria agenda, pensiamo alla prima campagna elettorale di Obama. Era la coda di un periodo di preoccupazione per la salute del pianeta ma anche di entusiasmo per le possibilità di una rivoluzione economica e sociale basata su criteri di sostenibilità. Oggi il clima è differente.
EV
Tutti i processi legati alla questione ecologica si rivelano lenti poiché non offrono un profitto immediato e tangibile, in termini di ecologia e sostenibilità il pensiero è per il futuro, per un interesse collettivo.
Come spieghi questo rallentamento forse apparente dell’agire?
LG
La crisi economica ha messo sul piatto questioni contingenti e frenato un certo slancio. Dal punto di vista filosofico questo ha condotto al recupero di criteri più materialisti, neo-realisti, a discapito di una visione sistemica. La sensazione è che ci sia una certa tendenza ad associare l’idea del pensiero ecologico, che è sistemico per sua natura, a quella di un’epoca, la tarda post-modernità, in dirittura d’arrivo. Credo che sia un errore. Credo che una prospettiva sistemica sia fondamentale per il progresso. La sfida è quella di riuscire a declinare questo pensiero – i molteplici punti di vista di cui parla Bateson - in relazione ai cambiamenti del mondo, non tornare a vecchi modelli.
Green Platform. Arte Ecologia Sostenibilità, veduta della mostra presso il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina a Firenze, 24.04 - 19.07.2009
EV
Da qui nasce la tua intenzione di dedicare un anno intero della programmazione del MAN ad un tema così importante e delicato come il pensiero ecologico.
LG
Esattamente, da questa riflessione che ti ho riferito con la voglia di tornare ad affrontare una materia ampia e magmatica come quella dell’ecologia fuori dalla retorica che ha accompagnato i suoi ultimi passi, prima che entrasse in crisi, e per raccontare, attraverso il lavoro di alcuni artisti, i diversi orientamenti del pensiero ecologico. Con Michel Blazy abbiamo affrontato un approccio più organicista, di ecologia profonda; un pensiero non antropocentrico, di chi legge il mondo non in chiave evolutiva, ma di continua trasformazione, di continua rigenerazione. Con Ettore Favini invece, nella mostra curata da Chiara Vecchiarelli al MAN e a Villa Croce, si è fatto un discorso diverso. Il progetto si fondava sulla raccolta di materiali donati all’interno di un territorio circoscritto, un’ecosistema, che l’artista descrive nel suo insieme e non come semplice somma di parti. E’ il pensiero ecologico nel suo lato più relazionale.
EV
L’opera d’arte quindi all’interno della triplice visione ecologista appunto, verso una nuova ecosofia portatrice di istanze produttrici di soggettività, tanto individuali che collettive.
LG
Il progetto sembra fare tesoro del motto ecologista “Pensa globalmente, agisci localmente”, al quale sono molto legato. È essenziale che si agisca all’interno del territorio, per attivare una socialità che sia motore di elementi creativi. Non dobbiamo gestire la socialità, la creatività, dobbiamo piuttosto alimentarle e attivarle continuamente. Dopo la mostra di Ettore Favini, nella project room ospitiamo un progetto di Ibon Aranberri, il cui lavoro è incentrato sull’indagine del rapporto natura-cultura. In questo caso è proprio il pensiero batesoniano a fare da cornice (mente e natura): lavorare all’interno di un contesto e verificarne le dinamiche di processo. Non sarà questo l’ultimo appuntamento del ciclo: stiamo già lavorando a un quarto appuntamento e ne seguiranno altri. Per me è importante che il ciclo resti aperto.
EV
È evidente infatti come questo tuo orientamento sia alla base di altri progetti delle passate programmazioni, penso alla mostra di Fulton e Hoepfner.
LG
Il progetto con Fulton e Hoepfner è nato dalle riflessioni sulla crisi di cui abbiamo parlato. Lavorando con due artisti di generazioni diverse volevo mostrare come una certa sensibilità sia ancora viva e attuale. La mostra evocava un ritorno al primordio, al pensiero di Thoreau (Walking, 1863), al cammino, alla dimensione della natura selvaggia. Ripartire dall’uomo, dalle sue origini, da un rapporto empatico, se vuoi anche romantico, con la natura. In questo senso Canto di Strada è stato davvero per me il momento per fare ripartire un ragionamento interrotto.
EV
Pensi che l’arte abbia un ruolo effettivamente attivo in questa direzione? O i suoi linguaggi e i suoi codici possono rappresentare un limite nella veicolazione di messaggi chiari e comprensibili a tutti?
LG
Non credo che esista un’arte ecologica in sé, o un’arte sostenibile. L’arte è linguaggio, è lo è anche quella che, in qualche forma, tocca questioni di carattere ecologico: la natura, il paesaggio, la convivenza, lo sviluppo, i processi creativi e produttivi. Certo l’arte può favorire lo sviluppo di un pensiero critico, e in questo senso, in qualche modo, può cambiare le cose. A volte grandi processi di cambiamento possono scaturire da un piccolo battito di ali, apparentemente insignificante. L’arte è quel primo battito.
In ordine: Roman Signer, Film e Installazioni, veduta della mostra al MAN, Nuoro 2016, foto Confinivisivi; ultima immagine: Ettore Favini, Arrivederci, MAN, Nuoro 2016, veduta della mostra
EV
Come nasce in generale lo scambio tra te e gli artisti, tra la tua ricerca e la loro poetica? Nel senso di come scegli gli artisti
LG
Tengo in considerazione normalmente tre cose: il lavoro in sé, la sua ragione di esistere, di essere presentato in un determinato contesto, e se nella proposta c’è del nuovo, il che significa anche semplicemente andare a verificare che qualcosa non sia già stato fatto in una certa forma o in tempi recenti.
EV
In termini di geolocalizzazione la poetica del MAN in che dimensione si inserisce?
LG
Il tema è forse quello del rapporto fra centro e periferia. Per fortuna oggi non è necessario essere fisicamente centrali per essere incidenti. L’isola, poi, gode di una condizione particolare: è distante dai centri ma, in un certo senso, costituisce un centro in sé; il detto “Sardegna come un continente” non è solo uno slogan, esprime effettivamente la condizione di questo territorio. A noi, come museo, spetta il compito di gettare ponti. E’ chiaro che uno dei modi per farlo è quello di creare reti di produzione e di scambio, come abbiamo fatto per la mostra di Roman Signer. Un altro modo è portare gli artisti a vivere e conoscere questo contesto, cosa che facciamo praticamente sempre, per ogni mostra che coinvolga artisti viventi.
EV
Un’ultima domanda...Christo ha realizzato il suo ultimo lavoro in italia (The Floting Piers sul lago d’Iseo) riportando alla luce un dibattito acceso: quello del rapporto tra etica, estetica e natura. Che cosa pensi di questo tipo d’intervento?
LG
L’opera di Christo è sempre al confine tra l’effimero e il monumentale. In questo è davvero ossimorica. In altre parole si può dire che costituisca una grande contraddizione. E l’operazione sul lago d’Iseo è forse ancora più contradditoria di altre. Trovo interessante questa contraddizione, mentre ciò che non amo è la comunicazione che spesso viene affiancata alle grandi operazioni di Christo, basata molto sui numeri, sulla grandezza. Qualche tempo fa ho curato con Elena Volpato una mostra sull’animazione, Passo a due. Ci sono degli artisti cha amano dichiarare il grande numero di disegni che hanno dovuto fare per realizzare il lavoro. E’ il tipo di dato per cui non ho interesse, non è il numero a dare valore all’opera, non è la quantità, non è la grandezza.
EV
In ogni caso pensi che operazioni artistiche del genere possano riaccendere positivamente il discorso sulla Land Art o rischiano di confonderne il reale senso?
LG
Il discorso sulla Land Art è complesso. Spesso mettiamo sotto il cappello di questa definizione autori molto diversi tra loro. Un lavoro come la Spiral Jetty di Smithson (1970), pur essendo monumentale, è di una leggerezza straordinaria; il fatto che ciclicamente l’acqua la copra e che poi riemerga lo rende vivo, lo fa respirare. Un sentiero su cui si può camminare, il cui profilo si fonde con il paesaggio, la cui prospettiva coincide con quella terrestre. Quanto è diverso tutto questo dalle escavazioni di Heizer. Stiamo parlando di due approcci davvero molto diversi. Heizer fa un gesto rudimentale, virulento. Smithson sente la natura, ne percepisce il battito, fornendo uno strumento unico per cogliere la bellezza delle relazioni che legano il tutto.
*Green Platform - Arte Ecologia Sostenibilita', progetto a cura di Centro di Lorenzo Giusti e Valentina Gensini, Cultura Contemporanea Strozzina - CCCS di Firenze, 24.04 – 19.07.2009
Hamish Fulton / Michael Hoepfner, Canto di strada, veduta della mostra presso il Man, Nuoro 2015