Sulla natura e l'identità umana

testo di Andrea Lerda

 

Darne una definizione è molto difficile, ma quante volte siamo portati a riflettere sul concetto di “identità”? Quante le circostanze in cui la questione identitaria si impone come protagonista di un dibattito tanto acceso quanto delicato?
“Identità” è certamente uno dei termini più usati nell’ambito della psicologia, della sociologia, della medicina e dell’antropologia, ma anche in campo politico, giornalistico e televisivo. La troviamo protagonista all’interno del mondo della pubblicità e della carta stampata, in quello della moda e dell’universo digitale.

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Bepi Ghiotti, Mio caro Richard, 2017, una passeggiata dedicata a Richard Long, BW video HD, noises, 16:9, 03’49, courtesy l'artista e Studio la Città - Verona

Ci riempiano la bocca di questa parola quando parliamo di Europa, quando dibattiamo sulle differenze di genere e ogni volta che tentiamo di rivendicare una posizione che si contrappone ad un’altra. La necessità di un confronto con l’identità, la propria e quella degli altri, nasce dall’inevitabile confronto con l’alterità, o meglio, con tutte le alterità che differiscono dalla “sostanza”(1) autentica e primordiale che costituisce ognuno di noi. Ne scaturisce un cortocircuito di significati, interpretazioni, posizioni divergenti e possibilità interpretative che forse nascono dalle medesime domande che già Paul Gauguin si e ci poneva nel 1897, con la sua memorabile opera Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Il concetto di identità viaggia dunque di pari passo con l’unknown e con il concetto di alterità, dal cui confronto si generano sempre nuove occasioni per declinare la ‘forma’ di tale “sostanza”. Nella filosofia classica la cosiddetta legge dell’identità esclude dalla sostanza qualsiasi minimo elemento di alterità esterno. L’identità sembra appartenere a qualcosa di prettamente interno che non deve essere contaminato in alcun modo con l’esterno. Questa posizione si può riassumere nella formula A = A e A ≠ non-A, già indicata da Francesco Remotti (2). Un punto di vista che non poteva evidentemente essere definitivo, dal momento che non sembra in alcun modo sostenibile l’esistenza di due dimensioni distinte e stagne, una interna e una esterna, immuni da una reciproca interazione. Sembra spettare a Hegel, all’inizio dell’800, la rilettura di questa posizione, rivedendo la formula iniziale in una seconda, in cui le due A, al posto di escludersi, accolgono l’interazione ed esistono grazie e per mezzo di una reciproca attrazione. L’una si fonde nell’altra, secondo la formula A e non-A (sempre fonte F. R.). Ecco allora che l’entità interna e quella esterna non sono più qualcosa di immobile ma sostanze in costante mutamento, i cui confini sembrano trasformarsi in membrane fluttuanti da attraversare piuttosto che muri contro i quali doversi scontrare; “l’unità viene a patti con la molteplicità: non si separa da essa”(3). 
Il problema dell’identità a questo punto sembra essere superato, addirittura cancellato, dal momento che il mondo e l’esistenza stessa sono in continuo mutamento e divenire, tuttavia, il dibattito in tal senso sembra essersi riacceso più che mai nel corso del Novecento. Se per lo psicologo e psicoanalista tedesco di inizio secolo Erik Erikson (1902-1994) l’identità si riferisce a qualcosa di interno, situato nelle strutture psichiche profonde dell’individuo, per un sociologo come Philip Gleason l’identità è invece una costruzione, un artefatto che scaturisce dall’interazione tra individuo e società ed è quindi “qualcosa di ascritto dall’esterno che muta secondo le circostanze”(4).

 

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Christian Fogarolli, Amoral, 2015; Remember, Repeat, Rework 6, (sx) foto originale di una vittima di amnesia, (dx) foto d'archivio, Tropenmuseum, Amsterdam 2016, 38 x 33 cm ciascuna. Foto Michele Alberto Sereni, courtesy l'artista e Studio la Città – Verona

In una dimensione presente, in cui la globalizzazione, la cultura digitale e la grande influenza esercitata dal mondo dell’immagine hanno un ruolo centrale, l’identità sembra essere più il riflesso del mondo esterno che un’entità incontaminata interna. La concezione ontologica dell’identità, quella per cui essa mantiene la propria autonomia, indipendentemente dagli eventi esterni e dalla volontà umana, sembra essere messa in discussione. Senza trascurare l’aspetto biologico e quello mentale, sembra appurato il fatto che l’identità è un prodotto sociale e culturale e che un rinnovato interesse nei suoi confronti si risveglia durante periodi storici di crisi. L’impoverimento culturale odierno, operato da una sempre più invadente presenza della galassia Internet, può essere considerato come un momento denso di criticità. La società più recente esercita un ruolo particolarmente forte in questo senso; oggi i soggetti sono molto spesso portati a ritenere l’identità come un “luogo di raccolta”, come un tetto sicuro sotto cui potersi riparare. Il potere della società contemporanea, attraverso i suoi attori commerciali, economici, politici, assieme al playground della retorica pubblicitaria e massmediatica, si configura come in grado di generare identità e un numero sempre crescente di “sé” o di “noi”. Se una persona riesce poi ad aderire a esse in maniera corretta, allora, molto probabilmente, sarà in grado di ottenere il pass per accedere alla propria esistenza. Inoltre, la possibilità offerta dai social media di dare vita a una identità diversa da quella che effettivamente ci appartiene (pensiamo ai profili su piattaforme come Facebook e Instagram, solo per citare i due più diffusi) va di pari passo con le caratteristiche di inconsistenza e di vulnerabilità di questa dinamica, così come con la curiosa opportunità di poterne generare all’infinito sempre di nuove e differenti. La nuova formula che descrive l’identità contemporanea, e che qui si vuole proporre in maniera del tutto arbitraria, potrebbe essere formulata allora come segue: A + non-A ∞, in cui la dimensione fisica (con le sue infinite particelle di cui è composta) e quella spirituale, indefinibile, si somma e si modifica in base alle infinite variabili esteriori che provengono costantemente e in maniera sempre più forte dalla società espansa odierna. Ci troviamo d’altro canto di fronte a quello che Zygmunt Bauman definisce come “mondo fluido”(5), caratterizzato da un’interattività universale senza confini, all’interno del quale possiamo dunque rintracciare e generare altrettante identità fluide. Forse prive, apparentemente, di una reale significato, forse tanto eteree ed iper fluide da rischiare di farci credere che non esista più un concetto vero e proprio di identità. In realtà, proprio questo paradosso sembra essere all’origine di un bisogno di riscoperta di un confronto più intimo e autentico con quella parte ontologica e promordiale propria dell’identità con la “I” maiuscola.

 

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In ordine: In the depth of identity, Christian Fogarolli, Bepi Ghiotti, Tamara Janes, Francisco Muñoz, a cura di Andrea Lerda, foto Michele Alberto Sereni, courtesy Studio la Città – Verona; Tamara Janes, Poor Image, 2016, stampa inkjet incorniciata (sx); Still Loading “Tamara Janes”, 2016, schermata smartphone, stampa digitale su tessuto di bandiera, 1 x 45 m, esemplare unico, copyright Tamara Janes, courtesy Boccanera Gallery, foto Michele Alberto Sereni.

La mostra In the depth of identity, proponendo la ricerca di 4 artisti che a vario titolo esprimono un interesse nei confronti di questo tema, evidenzia questo bisogno inesauribile di confrontarsi con il topos dell’identità, sottolineandone le qualità di mutevolezza, inconsistenza e precarietà.Attraverso una ricerca che mette assieme diverse discipline, Christian Fogarolli analizza il tema della malattia mentale, e dunque dell’alterità, portandoci a riflettere sul lato nascosto e inafferrabile della patologia psichiatrica (Amoral). Lo spettatore è invitato a specchiarsi all’interno di un mondo occulto e a riflettere sull’ossessione umana di voler comprendere le identità non conformi ad un modello di normalità. In parallelo, nelle fotografie della serie Remember, Repeat, Rework, si sofferma sulle fotografie di pazienti affetti da perdita di memoria, a queste vi associa immagini di sculture indonesiane di cui si sono perse le tracce storiche, quale possibile parallelo con la perdita di identità della società contemporanea. Francisco Muñoz Perez compie invece un processo in parte inverso: partendo da alcune immagini trovate all’interno della rivista “Vogue”, che fotografano una bellezza fredda e standard - quale sintomo e rimasuglio di una modernità decadente - mette in atto una riflessione critica sul potere di omologazione che il mercato pubblicitario, assieme a quello della moda e dell’”industria del bello” in generale, esercitano sull’immaginario collettivo. Guardando indietro, in direzione di un’estetica che appartiene alla cultura in Mesoamerica, l’artista decide di introdurre un elemento di non conformità, riformulando l’ideale di bellezza, dilatandone i confini e incoraggiando l’alterazione dei suoi canoni (Piedras aparentes), oppure ricoprendo alcuni oggetti in plastica di una nuova pelle, il cui aspetto rimanda a utensilerie provenienti da un passato lontano (Jardín de cenizas). Quella di Tamara Janes è invece una ricerca che guarda alle nuove potenzialità offerte dagli strumenti dell’era digitale, mediante i quali la nostra identità sembra essere diventata una semplice immagine a bassa risoluzione, che galleggia all’interno di grandi archivi come Google, Instagram, Pinterest, Tumblr e via dicendo (Poor Image). L’artista digita il proprio nome nel motore di ricerca Google Immagini e prima che questo possa caricare effettivamente le fotografie che rispondono al suo nome, ne scatta l’istantanea costituita da una carrellata infinita di quadrati e rettangoli colorati (Still Loading “Tamara Janes”). Ecco l’ultima frontiera della nostra identità. E allora, Mio caro Richard, che cosa vuoi che io riesca a fare, oggi, con questo terreno così instabile, sinonimo di una società priva di certezze e punti di riferimento? È questa la domanda che si pone Bepi Ghiotti all’interno del suo video. Un cammino introspettivo che mira a interrogare il proprio Io, quello del suo essere artista ma in definitiva quello dell’essere umano più in generale.

 

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Francisco Muñoz Perez, Piedras aparentes Vol. III; Piedras aparentes / Xipe Tótec, 2016,, Stampa la carbone su carta di cotone, 46,5 x 36,5 x 4 cm con cornice; Ashes garden, 2016, malte, vasi, contenitori in plastica assemblati e dipinti con finitura effetto pietra, dimensioni varie, courtesy l'artista e Studio la Città - Verona

 

In the depth of identity
Christian Fogarolli, Bepi Ghiotti, Tamara Janes, Francisco Muñoz
a cura di Andrea Lerda
Studio la Città, Verona
Fino al 18 novembre 2017

 

1_Termine indicato da Francesco Remotti in: L’ossessione identitaria, Editori Laterza, Bari 2010, p.26.
2_Ibid.
3_Ibid. p.28.
4_Gleason Philip 1983: Identifying Identity: A Semantic History, “Journal of American History”, LXIX, 4, p. 918.
5_Bauman Zygmunt, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Editori Laterza, Bari 2003, p. 87.