Lo spazio fantasma 

di Marinella Paderni

poggioreale


Atlas Italiae
è un viaggio fotografico durato due anni in un mondo che non c'è più, una geografia di luoghi fantasma che abitano un'Italia invisibile e lontana dalle cronache. Borghi disabitati da decenni che sembrano non esistere nemmeno sulle cartine geografiche, architetture fatiscenti divorate dalla vegetazione selvaggia, archeologie industriali che paiono imbalsamate nel tempo del 'non più' ci raccontano di un'Italia che resiste e sopravvive a se stessa malgrado l'apparente stasi del presente, di un oblio che si sostituisce all'incuria umana modellando le cose di una bellezza tremenda, diversa, che in controluce rivela l'anima in potenza del paesaggio italiano.
Nel lavoro di Silvia Camporesi il velo dell'anonimato si squarcia mostrando l'anima di luoghi congelati nelle nebbie dell'amnesia generale. Qui il suo sguardo va oltre la pura registrazione di uno stato della realtà, è indirizzato a cogliere la tensione di un'Italia degli estremi in cui scorgere l'incanto anche laddove si pensa scomparso.
Com'è la vita delle cose che si sono dimenticate? I paesi deserti, le architetture abbandonate, gli oggetti perduti sono soltanto gusci vuoti che si stanno sfaldando sotto la pressione delle temperie o hanno il dono di continuare ad esistere oltre l'uomo?

 

roghudi

curon
			venosta


Silvia Camporesi ci fa entrare in un tempo scomparso in cui fare esperienza del vuoto che l'uomo ha prodotto smarrendo il senso originario dei luoghi. Si tratta di spazi e di oggetti non più connotati da chi li viveva, che hanno cambiato natura; forme aperte al tempo e alle sue potenzialità in essere, da saggiare con i sensi, in cui poter percepire quello che Marcel Proust ha cercato di trasmetterci con la sua ricerca del tempo perduto - il risuonare del passato come continuità del Tempo, base sicura per non precipitare nell'amnesia tutta digitale di un presente istantaneo, indistinto, pieno di informazioni ma carente di esperienze e di ricordi. Un presente digitale che non possiede sfumature, toni, colori, perché è fatto di una materia diversa; non di sogni, immaginazioni e rȇverie, ma di telepresenza, bit e velocità. Un tipo di presente che non va mai oltre l' 'ora e adesso', cieco rispetto alla memoria del passato e all'avvenire del futuro.
Invece, nella memoria involontaria delle cose lasciate in una condizione fantasma, noi possiamo esperire un tempo ritrovato. 'Le gambe, le braccia sono pieni di ricordi in letargo' scrive Proust nell'ultimo capitolo Le temps retrouvé della Recherche. Gli oggetti dismessi e lasciati al loro posto come se fosse ieri, le incrostazioni dei muri e le macchie di muffa degli intonaci, gli scheletri di architetture private della loro funzione, sono quei ricordi in letargo che i luoghi hanno trattenuto nelle loro membra, che sfuggono ad ogni forma di controllo o di alienazione, fondamentali per generare una continuità temporale, ossatura dei nostri corpi e del mondo secondo il grande scrittore francese.
Ma sono anche ombre della dimenticanza umana che parlano di come l'oblio e la memoria giochino una partita sul tempo intrecciandosi e scambiandosi i ruoli. La storia c'insegna la necessità di dimenticare, affinché l'oblio possa alleggerire una memoria a tratti troppo ingombrante o troppo drammatica da elaborare.

 

borgo san giuliano

pianosa

la nave


Nelle fotografie dell'artista l'immagine dell'abbandono assume un significato inedito proponendo una diversa prospettiva sulla realtà: le rovine della nostra modernità sono lasciate necessariamente morire lontano dallo sguardo pubblico poiché l'uomo di oggi teme più di ogni altra cosa misurarsi con la propria finitudine e doversi mettere in contatto con la propria mortalità. Lasciando che le cose ideate e costruite da lui stesso periscano lontano dalla vista quotidiana, l'uomo del ventunesimo secolo può rimandare l'idea stessa della sua sparizione concentrandosi piuttosto sull'eterna 'telepresenza' del mondo digitale, che registra ogni cosa sotto forma di documenti, immagini, filmati. All'invisibilità di codici e file si relega la memoria del mondo, incapaci di trattenerla dentro i nostri corpi e dei nostri luoghi.
Permeata di metafisica del sublime, la fotografia di Silvia Camporesi coglie l'essenza di spazi fantasma non come traccia di una morte annunciata ma quale promessa di una vita che non si esprime solo tramite l'aura digitale di un mondo raddoppiato e modificato dalla tecnologia.
Nella scoperta di realtà che sfuggono alla telepresenza, il paesaggio si manifesta finalmente per quello che è, una forma di conoscenza dell'intimo valore dell'uomo e della sua presenza nel mondo.

 

ex cementificio bergamo

casteluovo sabbioni


Per evitare l'appiattimento digitale che restituisce sempre lo stesso sapore anodino delle cose, l'artista riattualizza la fotografia intervenendo sui suoi processi formali, sulla resa visiva della memoria e dell'identità. La coloritura a mano delle fotografie, stampate precedentemente in bianco e nero, ricorda la patina del tempo che non si esaurisce nel passato ma continua ad esistere nella polvere del presente. I pigmenti naturali aggiungono qualcosa di più, una bellezza autentica che la fotografia digitalizzata non riesce ancora a clonare.
L'utilizzo di un'antica pratica orientale di piegatura della carta - il kirigami - è cosa insolita e singolare nell'universo del fotografico. Invece, per Silvia Camporesi la realtà ha bisogno di maggior corpo fisico, di una consistenza concreta, per non alienare se stessa e smarrirsi. Magicamente le sue fotografie si tagliano, si scompongono in una tridimensionalità nuova che allude alla fisicità dei luoghi e delle cose che stiamo guardando. In questo lavoro non solo il senso della vista è potenziato ma pure la tattilità e la sensorialità epidermica del mondo, trasformando la fotografia in un linguaggio dell'arte che non si appiattirà mai alla digitalizzazione della bellezza e alla stereotipia delle identità.


Per tutte le immagini: Silvia Camporesi, Atlas Italiae, courtesy l'artista